Zuckerberg e la resa definitiva a Trump (e Musk): cosa c’è dietro la fine del fact-checking negli Usa e cosa succederà in Europa
di Martina Pennisi (fonte)
L’amministratore delegato di Meta modifica le politiche di moderazione dei contenuti: «Troppa censura, serve più libertà»
Ironia della sorte: la prima notizia etichettata come potenzialmente falsa da Facebook, nel 2017, riguardava Donald Trump (e una fantomatica fuga di notizie causata dal suo smartphone).
Ieri, alla vigilia del secondo mandato del tycoon alla Casa Bianca e nel tentativo ormai esplicito di riposizionarsi al fianco del neopresidente, Mark Zuckerberg ha annunciato una serie di modifiche alle politiche di moderazione dei contenuti sulle piattaforme di Meta.
La più importante riguarda la chiusura del programma introdotto otto anni fa per arginare la circolazione di notizie false su Facebook e Instagram che affida a siti di informazione e fact-checker terzi la valutazione di post apparentemente falsi al fine di etichettare quelli fuorvianti.
La novità coinvolgerà in una prima fase i soli Stati Uniti, nei prossimi mesi, per «ripristinare la libertà di espressione», come Zuck ha argomentato in un video. Che nel linguaggio e nei concetti espressi ricalca quelli del neo presidente Usa: i fact-checker sono «troppo politicamente di parte» e si è «arrivati a un punto in cui ci sono troppi errori e censura». E ancora: «Stiamo eliminando una serie di restrizioni su argomenti come l’immigrazione, l’identità di genere e il genere».
Il nuovo modello dell’ad di Meta sono, non a caso, le community notes di X dell’ex nemico Elon Musk, che delegano agli utenti la correzione o l’aggiunta di elementi di contesto alle informazioni considerate false. «È fantastico», ha infatti commentato l’addetto all’efficienza di Trump. L’Europa, invece, si sta interrogando sul rispetto delle regole da parte di X con un procedimento di infrazione avviato un anno fa.
E l’Europa è stata attaccata frontalmente da Zuckerberg, che aveva già preso le distanze rimpiazzando il britannico Nick Clegg nel ruolo di presidente degli Affari globali con Joel Kaplan, americano e repubblicano di ferro: attua «un sempre crescente numero di leggi che istituzionalizzano la censura e rendono più difficile realizzare qualsiasi innovazione lì», dice l’imprenditore, contando sul supporto di Trump «per respingere i governi di tutto il mondo che se la prendono con le società americane e premono per una censura maggiore».
Al momento, Meta fa però sapere di non avere intenzione di eliminare i fact-checker in Europa, compresi gli italiani Pagella Politica e Open, sottoposti a rinnovi annuali e quindi coperti per il 2025, e che prima di fare modifiche esaminerà i suoi obblighi. La norma di riferimento è il regolamento sui servizi digitali (Dsa).
Spiega al Corriere l’avvocato ed esperto di digitale Ernesto Belisario che, secondo il Dsa, «le piattaforme hanno l’obbligo legale di mantenere misure efficaci per mitigare i rischi sistemici, inclusa la disinformazione. Qualsiasi modifica significativa ai sistemi di moderazione dei contenuti, come l’eliminazione del fact-checking di terze parti, deve essere valutata nell’ambito delle valutazioni di rischio obbligatorie. Il gestore della piattaforma dovrebbe dimostrare che i metodi alternativi adottati sono ugualmente efficaci nel contrastare la diffusione di contenuti fuorvianti».
Tommaso Canetta, vicedirettore di Pagella Politica, non è ottimista: «Nulla impedisce a Zuckerberg di chiudere la collaborazione che ha in molti Paesi europei e in un secondo tempo affrontare le conseguenze. Ci dobbiamo aspettare il peggio» ha dichiarato all’Agi. Al Wall Street Journal , il docente di psicologia della Cornell University Gordon Pennycook ha detto che «se si rimuovono i fact checker professionisti dall’ecosistema, i giudizi degli utenti comuni peggioreranno».
Secondo Walter Quattrociocchi, ordinario di Data Science and Complexity a La Sapienza di Roma, la mossa di Meta «nasconde un’ammissione implicita: il fact-checking non funziona». Spiega al Corriere che, al contrario, «spesso peggiora le cose, rafforzando la polarizzazione e consolidando le echo chamber. Eppure milioni di dollari sono stati spesi. Le piattaforme social non sono progettate per essere strumenti di informazione, ma macchine per l’intrattenimento. Imporre dall’alto un modello di controllo non ha mai funzionato. La verità, nella sua accezione più ampia, è spesso ambigua, contestuale e soggetta a interpretazioni». L’antidoto, secondo Quattrociocchi? «Una riflessione collettiva sul nostro comportamento online».
Riflessione che non può più prescindere dalla consapevolezza del ruolo chiave delle piattaforme nella comunicazione e nella propaganda politica, al di là di quello che si può circoscrivere in modo netto come vero o falso.