Secondo Erik Erikson, che è stato uno psicologo e psicoanalista tedesco, la costruzione dell’identità non è solo un compito individuale, ma influiscono fattori sociali, culturali ed educativi. La figura di Erikson ha assunto particolare rilievo per aver inserito i problemi della psicoanalisi infantile in un contesto di ricerche antropologiche e sociologiche. Lo studioso descrive l’adolescenza come un periodo di sospensione tra “il non più e il non ancora“, nel senso che non si appartiene più al mondo dell’infanzia, ma non si è ancora entrati a far parte del mondo degli adulti.
Elaborando in tal modo la nozione d’identità, Erikson si stacca dalla tradizione freudiana ortodossa che enfatizza la rilevanza della dotazione biologica individuale per lo sviluppo della persona: “anche la storia di vita del soggetto e del contesto culturale e storico in cui egli vive, entrano in gioco nel processo di formazione della personalità“.
Erikson parla di identità dell’Io come unitarietà e centralità della persona che mantiene una flessibilità nel rapporto con l’ambiente. L’identità dell’Io è intesa come la consapevolezza della continuità della propria esistenza nel tempo e nello spazio nel quale tale esistenza si sviluppa. Numerosi studi dimostrano che il periodo adolescenziale è caratterizzato dalla crisi fra identità e confusione: si concretizza con il rifiuto di alcuni modelli di identificazione certi e consolidati nella fanciullezza, per sceglierne altri dando una ridefinizione alla propria prospettiva di vita futura che verrà costruita in base alle aspettative, ma soprattutto in base agli stimoli sociali. Il pericolo è la confusione del proprio ruolo per l’adolescente, esso corre il rischio di non riuscire ad integrare le diverse espressioni di sé con la realtà nella quale si sviluppa.
L’identità dipende dal passato e determina il futuro: radicata nell’infanzia, serve da base su cui incentrare la vita futura ed i compiti vitali ad essa connessi.
“Soltanto, quando il soggetto è in grado di selezionare alcune fra e sue identificazioni infantili scartandone altre, in accordo con i propri interessi, talenti e valori, egli giunge a formare la propria identità” (Augusto Palmonari, Psicologia dell’adolescenza, Il mulino, Bologna, 1997).
Albert Bandura, è uno psicologo canadese, noto per la teoria dell’apprendimento sociale: sottolinea con le sue ricerche come le persone pur dotate di forme di ragionamento elevato si ispirano a norme universali. Le pressioni di gruppi di coetanei, familiari, educative e dei mass media possono svolgere un ruolo significativo nell’adozione di un comportamento di disimpegno morale. Le esperienze sociali contribuiscono alla personalità e alla condotta morale. L’apprendimento secondo questa teoria non avviene solamente per contatto diretto con gli elementi, ma essere mediato attraverso l’osservazione del comportamento di altre persone attraverso un processo di modellamento.
Nel processo evolutivo gli adolescenti cercano nuove esperienze e nuovi modelli comportamentali al di fuori della famiglia, soprattutto con i coetanei e con altri adulti che non siano i genitori, cercando modelli di identificazione.
In quest’ottica di modellamento della personalità, non si può trascurare l’impatto che i nuovi mezzi di comunicazione hanno sullo sviluppo in età evolutiva.
Vediamo quindi come la teoria del confronto sociale di Leon Festinger (1919-1989) venga tenuta in considerazione, ma rivalutata in base al contesto sociale contemporaneo.
Festinger sostiene, nel saggio “A Theory of Social Comparison Processes” del 1954 che quando siamo incerti sulle nostre capacità ci valutiamo attraverso il confronto con gli altri.
Scopriamo però che la società è profondamente cambiata e il confronto attuale è indotto da modelli comportamentali veicolati dai media.
La strutturazione della mente umana coincide con la formazione della relazione fra entità comunicanti e con l’avvento multimediale non possiamo più individuarne i limiti. Ogni azione umana è rapportabile comunque ad un progetto comportamentale tracciato precedentemente attraverso I’interazione fra immaginario collettivo, immaginario individuale ed immaginario mass mediale, continuamente rimaneggiato dalla esposizione costante ai gradienti vettoriali imaginiferi (cinema, televisione, pubblicità, internet). Tradurre I’immaginario inconscio in potenziali comportamenti a livello conscio rappresenta uno dei campi di applicazione, oltre a quello strettamente terapeutico, dello studio dell’immaginario mentale. Tale analisi si effettua attraverso la decodificazione semiotica ed archetipica degli elementi che lo compongono, del contesto culturale, della sua evoluzione e dei patterns, (distinguibili sperimentalmente in paleo-patterns e neo-patterns) correlabili. Studi ed esperienze cliniche hanno unitamente dimostrato come esista un nucleo di limite omeostatico latente in ciascuno individuo, che opera in circostanze critiche.
L’autonomia funzionale dell’Io, nella sua dimensione dinamico-strutturale (inteso perciò come Sé) coincide perciò con la possibilità di contenere questo nucleo lasciandolo esprimere in una rappresentazione al di qua del reale senza travalicare il confine dell’azione (fantasia agita o messa in pratica).
L’inconscio è la massima espressione creativa del mondo biologico, si alimenta in una dimensione collettiva che si arricchisce e si modifica man mano attraverso l’interazione mass-multimediale.
Veicolando a livello inconscio i contenuti caratterizzati da immagini mentali, utilizzabili in relazione ai neuroni a specchio, si apportano modifiche strutturali che consentono il cambiamento della dimensione sistematica dove gli individui strutturano la mente. (Villanova M., Orientamenti clinico forensi criminologici ed educativo pedagogici di neuropsichiatria dell’età evolutiva per le professioni dell’infanzia e dell’adolescenza, Edizioni La Sapienza, Roma, 2010).
Vedi anche Esempi di comunicazione nei media di ruoli, stereotipi e pregiudizi
Marina Ciferni