IL 20.07.2024 il Corriere della Sera a firma Elisa Messina pubblica una proposta di legge (link – permalink) di seguito copia per studio.
«Multa da 5mila euro a chi scrive “avvocata” o “sindaca”»: ddl choc della Lega contro l’uso del femminile negli atti
La neo-sindaca di Firenze Sara Funaro dovrà presentarsi come «sindaco» negli atti ufficiali del municipio toscano, così come il Comune di Modena dovrà smettere di scrivere «questora» quando, come fa adesso, si riferisce a Donatella Dosi, titolare della Questura della città emiliana. In caso contrario, multa salata. Sono solo due delle tante situazioni che si potrebbero verificare se il nuovo ddl presentato dalla Lega diventerà legge. L’uso del femminile, chiedono dal partito guidato da Matteo Salvini, va abolito per legge nei documenti ufficiali. Quindi, si scriva solo «sindaco», «questore», «avvocato», «rettore», «ministro», «ingegnere» Indipendentemente dall’identità di genere di chi ricopre quel ruolo.
Maschile universale per tutti, dunque, come ai cari vecchi tempi e non come succede adesso in quello che il generale Vannacci (e non solo lui) vede come un «mondo al contrario». E per chi non si adegua è prevista la sanzione: una multa fino a 5mila euro. Si difenda la tradizione (patriarcale?) partendo dalla lingua, insomma. Non a caso, il disegno di legge che è stato appena presentato dal senatore leghista Manfredi Potenti si intitola «Disposizioni per la tutela della lingua italiana, rispetto alle differenze di genere». L’obiettivo dunque, come si legge nel testo, è di «preservare l’integrità della lingua italiana ed in particolare, evitare l’impropria modificazione dei titoli pubblici dai tentativi “simbolici” di adattarne la loro definizione alle diverse sensibilità del tempo». Insomma, la solita crociata contro il politicamente corretto, ma senza nominarlo direttamente.
Nel dettaglio, l’articolo 2, visionato in bozza dall’agenzia AdnKronos, prevede che «in qualsiasi atto o documento emanato da Enti pubblici o da altri enti finanziati con fondi pubblici o comunque destinati alla pubblica utilità, è fatto divieto del genere femminileper neologismi applicati ai titoli istituzionali dello Stato, ai gradi militari, ai titoli professionali, alle onorificenze, ed agli incarichi individuati da atti aventi forza di legge». E al successivo art. 3 si pone il «divieto del ricorso discrezionale al femminile o sovraesteso od a qualsiasi sperimentazione linguistica», ricordando che «è ammesso l’uso della doppia forma od il maschile universale, da intendersi in senso neutro e senza alcuna connotazione sessista».
Probabilmente il riferimento è all’Università di Trento che ha osato utilizzare nel testo del suo regolamento ufficiale il femminile sovraesteso, al posto del maschile, intendendolo come una sorta di «giustizia riparativa» verso il maschile universale-neutro usato per secoli: un messaggio culturale e politico non compreso nel suo significato, evidentemente.
Nel finale art. 4 si legge infine come «la violazione degli obblighi di cui alla presente legge comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria amministrativa consistente nel pagamento di una somma da 1.000 a 5.000 euro».
Decisamente critica verso la proposta la sociolinguista Vera Gheno, autrice di numerosi saggi sulla lingua italiana e la sua evoluzione culturale e sociale. «In primis, il senatore Potenti e chi ha proposto questo Ddl sono persone che ignorano la storia stessa della lingua che dicono di voler difendere: i femminili esistono da tempi molto antichi (si vedano ministra e soprattutto avvocata, uno dei nomi della Madonna), quindi non si tratta di alcuna “sperimentazione”. Secondo, l’idea di sanzionare chi non si adegua alla loro ignoranza è degna dei peggiori regimi totalitari, complimenti.
Questa voglia di repressione nei confronti di chi usa il linguaggio di genere è la dimostrazione migliore di quanto queste persone siano in cattiva fede nel momento in cui ne minimizzano la rilevanza: se i femminili fossero poco importanti, non si agiterebbero tanto nel tentativo di vietarli».
Nel testo del ddl il senatore Potenti precisa di non voler mettere in discussione «la legittima battaglia per la parità di genere» ma di voler piuttosto evitare «eccessi non rispettosi delle istituzioni». Non è chiaro dove sarebbe la mancanza di rispetto verso le istituzioni visto che anche l’Accademia della Crusca ha considerato legittimo l’uso di termini come «avvocata» o «ministra» e anzi ne ha incoraggiato l’uso.
Non dimentichiamo che l’uso del maschile riferito a certe professioni «alte», comprese le cariche istituzionali deriva anche dal fatto che fino a non molti anni fa quei ruoli erano preclusi alle donne, ma linguisticamente, la declinazione al femminile che è sempre esistita.
Siamo davanti a una proposta che seguirà un suo iter o si tratta piuttosto di una provocazione volta ad alimentare una polemica? Insomma, solo una delle tanta «sparate» per accontentare un elettorato affezionato a certe difese identitarie? Vedremo. Anche in questo caso Gheno è lapidaria: «Trovo che impiegare la strada delle proposte di legge strampalate come provocazione sia, da parte di alcune formazioni politiche, un modo incivile di usare gli strumenti democratici a nostra disposizione».
IL 22.07.2024 – La proposta viene ritirata. (link – permalink)
Abbiamo scherzato. La proposta di legge del senatore leghista Manfredi Potenti che prevedeva la proibizione dei titoli al femminile all’interno degli atti ufficiali – leggi «sindaca», «avvocata», «ministra», «questora» – a favore del solo maschile (sindaco, avvocato ecc.), non ci sarà. Dalla Lega fanno sapere infatti che si tratta di un’iniziativa del tutto personale del senatore toscano che ieri ha fatto vedere in anteprima alle agenzie di stampa la bozza degli del nuovo ddl. Tra gli articoli si prevedevano addirittura delle multe da 100 a 5000 euro per chi avesse violato la regola del «maschile first» e avesse osato scrivere «avvocata» anziché «avvocato» anche se la titolata è donna.
La proposta in questione si è dimostrata divisiva persino all’interno della stessa Lega. Infatti i vertici del partito, a partire dal capogruppo al Senato Massimiliano Romeo, non condividono quanto riportato nel Ddl Potenti: «Non rispetta la nostra linea». E ne hanno chiesto il ritiro immediato.
In effetto, la replica da parte del mondo politico e culturale era stata immediata e la polemica inevitabilmnte era finita anche sui social: la senatrice e linguista Aurora Floridia (Avs) si è fatta promotrice di una di una lettera inviata al presidente del Senato Ignazio La Russa e firmata da 76 senatrici e senatori, in cui si rivendica la libertà e il diritto a essere chiamate con il genere femminile: «Questa proposta rappresenta un grave passo indietro nella lunga e faticosa lotta per la parità di genere — ha commentato —. Il linguaggio è un potente strumento di inclusione e riconoscimento delle identità. Cancellare il femminile significa negare visibilità e dignità alle donne che ricoprono ruoli di responsabilità e prestigio nella nostra società».
Il titolo del disegno di legge del senatore Potenti «Disposizioni per la tutela della lingua italiana, rispetto alle differenze di genere» manifestava fin da subito il suo obiettivo, ovvero, «difendere» la lingua da quella che viene considerata la deriva del politicamente corretto (senza nominarlo). Al fine di «preservare l’integrità della lingua italiana ed in particolare, evitare l’impropria modificazione dei titoli pubblici dai tentativi “simbolici” di adattarne la loro definizione alle diverse sensibilità del tempo».
Di qui il «divieto del genere femminile per neologismi applicati ai titoli istituzionali dello Stato, ai gradi militari, ai titoli professionali, alle onorificenze, ed agli incarichi individuati da atti aventi forza di legge».
Evidentemente il relatore della bozza di legge in questione non era a conoscenza del fatto che non siamo in presenza di neologismi o sperimentazioni, ma di parole esistenti nella lingua italiana, come riporta l’enciclopedia Treccani e come spiegato anche dall’Accademia della Crusca.
E come ci ricorda anche la socio-linguista Vera Gheno: «I femminili esistono da tempi molto antichi (si vedano ministra e soprattutto avvocata, uno dei nomi della Madonna), quindi non si tratta di alcuna “sperimentazione”».
Come spiegare dunque, la mossa domenicale dell’esponente del Carroccio? Davvero una pura iniziativa individuale oppure una provocazione per rinfrescare e alimentare, soprattutto sui social, la crociata al «politicamente corretto» che è una dei cavalli di battaglia del partito? Un’arma di distrazione di massa nel giorno della bagarre politica tra i vicepremier Salvini e Tajani dopo l’esito del voto al Parlamento Europeo?
In ogni caso, l’esito è stato uno scivolone sulla conoscenza della lingua che ha finito per mettere in discussione principi ormai accettati in modo bipartisan: il riconoscimento dei ruoli di prestigio ricoperti oggi dalle donne. Una conquista da non dare per scontata e che merita di avere il suo nome: quello di sindaca, avvocata, ministra, questora, prefetta…
I nomi che diamo alla realtà sono il modo per riconoscerla. Lo diceva Alma Sabatini in «Raccomandazioni per un’uso non sessista della lingua italiana», manualetto redatto per la presidenza del Consiglio dei ministri nel lontano 1987. Manualetto ancora troppo poco conosciuto e praticato.